Torna la vendita di vino sfuso imbottigliato fuori zona
Non tantissimi anni fa nei territori dei principali vini Doc italiani si sono combattute dure battaglie sull’obbligo di imbottigliamento in zona d’origine. Un vincolo introdotto da vari consorzi tra gli anni ’90 e i primi anni 2000 a tutela della qualità del prodotto. Molti vignerons, infatti, temevano che vendere vino sfuso da imbottigliare lontano, in molti casi anche all’estero, deprimesse il prezzo del prodotto esponendolo inoltre a un rischio contraffazione. Ma, soprattutto, i produttori temevano che vendere vino in cisterna da imbottigliare ed etichettare altrove spostasse altrove anche i margini di guadagno.
Sembra passato un secolo a leggere i dati del Consorzio del Pinot Grigio delle Venezie Doc, la seconda denominazione italiana per volumi produttivi, alle spalle del fenomeno Prosecco, con 320 milioni di bottiglie messe sul mercato nel 2021. «Di questi quantitativi – spiega il presidente del Consorzio del Pinot Grigio delle Venezie, Albino Armani – ben il 37% è imbottigliato fuori zona. In buona parte in altre regioni d’Italia ma anche, e per una fetta significativa, da 33 aziende straniere. Nel dettaglio, 65mila ettolitri sono imbottigliati in Germania, 60mila negli Stati Uniti, 37mila in Francia, 10mila in Canada, 4mila in Australia.
Senza dimenticare che molti di questi paesi, soprattutto Usa, Francia e Australia sono
produttori di Pinot Grigio, ma scelgono di imbottigliare quello italiano».
Uno degli aspetti più interessanti è che questi operatori stranieri, pur di imbottigliare il Pinot Grigio made in Italy (l’Italia tra Triveneto, Lazio, Sicilia e Puglia produce il 45% del Pinot Grigio mondiale) si assoggettano al sistema di controlli italiano. Imprese straniere non proprio abituate alla burocrazia italiana che hanno volontariamente deciso di misurarcisi. «Non solo – aggiunge Armani – ma sono anche andate oltre. Basti pensare che una multinazionale del vino da miliardi di bottiglie come la Ernest & Julio Gallo è socia del nostro consorzio». «Il nostro è un sistema complesso – spiega il presidente di Valoritalia (il principale ente di certificazione italiano), Francesco Liantonio – e prevede che il consorzio spedisca all’imbottigliatore, oltre al vino, i contrassegni di Stato da applicare sulle bottiglie prima della loro immissione in commercio. Ma soprattutto un sistema che richiede che l’imbottigliatore si sottoponga, anche negli Usa o in Australia, alle verifiche degli agenti vigilatori inviati dall’Italia».
Un tema quello dell’imbottigliamento fuori zona che sta tornando in auge in questa congiuntura di forti rincari dei costi delle materie prime (dal vetro ai tappi e alle etichette), dei trasporti nonché dell’energia. Una leva che potrebbe invece consentire di spostare a valle almeno una fetta di questi oneri. «Non credo ci sia una soluzione valida per ogni denominazione – aggiunge Liantonio –. I produttori devono semplicemente chiedersi se sono in condizione di valorizzare l’intera loro produzione. Per volumi consistenti, come nel caso di alcune denominazioni del Sud, penso che un’ipotesi del genere non vada scartata a priori. Nel caso del Pinot Grigio delle Venezie questa soluzione consente di collocare sul mercato il 37% della produzione che altrimenti finirebbe per deprimere le quotazioni».
Il prezzo poi è l’altra importante discriminante per decidere sul tema dell’imbottigliamento in zona. «I dati parlando chiaro – sottolinea il presidente Armani – negli ultimi dodici mesi a fronte di un incremento della produzione di circa il 6%, la quotazione del Pinot Grigio sfuso è passata da 0,85 a 1,15 euro al litro con una crescita del 35%». Ma il vino imbottigliato all’estero che prezzi spunta sul mercato? «Negli Usa – conclude Armani – una bottiglia di Pinot Grigio delle Venezie, che tra vino e confezione costa 2,5 euro, viene vendute a 10 euro e a noi interessa che il nostro prodotto sia valorizzato. Meglio che una fetta dei margini la intaschino altri che lasciare il prodotto invenduto».
Fonte: Il Sole 24 ORE